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Jane Goodall: cosa ho imparato dagli scimpanzé

Dalla capacità di rompere gli schemi all’empatia come componente necessaria del fare ricerca: Jane Goodall, la lady dell’etologia mondiale, spiega come ha rivoluzionato lo studio del comportamento animale. E avverte: studiando la comunicazione dei primati, possiamo capire meglio la nostra

Cosa ci accomuna agli scimpanzé? È possibile guardare ai nostri “parenti” più antichi per trovare nuove prospettive di ricerca sul nostro linguaggio, sulle nostra comunicazione, e perché no, capire come migliorarla? Ne abbiamo parlato con Jane Goodall, la lady dell’etologia mondiale, fondatrice del Jane Goodall Institute e Messaggero di pace per l’ONU, da sempre abituata a rompere gli schemi della scienza.

I suoi studi hanno indagato il lato umano dei primati: ribaltando prospettiva, potremmo chiederci cosa ci sia di “primordiale” in noi, nella nostra comunicazione. Crede che attraverso il comportamento dei primati possiamo comprendere modalità di linguaggio ancestrali, di cui abbiamo perso consapevolezza?

Anche se le scimmie e gli scimpanzé sono cognitivamente capaci di comunicare in modalità simili a quelle del linguaggio umano, e possono ovviamente comprendere simboli astratti, non hanno tuttavia sviluppato un linguaggio verbale propriamente detto, ovvero fatto di parole. Questa, a mio parere, rimane la differenza più grande tra noi umani e gli animali. Perché è la capacità di comunicare a parole che ci ha reso capaci di imparare dal passato, fare progetti nel futuro lontano, discutere e ragionare, portare a confronto diversi punti di vista su un singolo problema fino a trovare una soluzione condivisa, insegnare concetti anche astratti ai nostri figli. E tuttavia, io credo che gli scimpanzé siano capaci, in qualche maniera, di comunicare in questo modo; se non verbalmente, certamente sul piano intellettuale. Mi rendo conto, però, che non tutti sarebbero disposti a condividere questa idea.

Cosa possiamo imparare dai primati, anche alla luce dei nuovi fenomeni legati alla cultura digitale (come la dematerializzazione)?

Certamente credo che qualcosa che possiamo imparare – o reimparare – da loro è l’importanza del contatto fisico, del tatto, dei gesti, perché dal punto di vista evolutivo è qualcosa che gli umani hanno sempre usato, che ci accomuna a loro e che costituisce un fondamentale elemento di regolazione della comunicazione interpersonale. È vero: sotto questo aspetto l'era digitale ha certamente contribuito a separare le persone. Ed è chiaro che se si comunica senza il feedback del contatto diretto, qualcosa si perde. Se ad esempio capita di dire qualcosa di cattivo o di molto spiacevole a qualcuno, attraverso il contatto fisico si può subito fare ammenda, tendergli la mano e toccarlo, specialmente se si tratta di un bambino. Attraverso la comunicazione digitale tutto questo non è possibile.

Qual è oggi il ruolo della scienza e del discorso scientifico nella società? Affascina ancora o ha perso la sua storica funzione di motore di immaginario e futuro?

Penso che uno dei problemi della scienza, oggi, sia l’idea che la ricerca debba escludere la soggettività. Molti giovani si sentono respinti dalla scienza, perché la percepiscono come una disciplina estremamente fredda: esiste il pregiudizio per cui il buon scienziato deve essere obbiettivo e non mostrare mai empatia con l’oggetto del suo studio. Per come la vedo io, è un modo sbagliato di pensare. Lo penso da sempre: quando iniziai a studiare gli scimpanzé, mi fu detto chiaramente che non dovevo dare loro dei nomi, che dovevo identificarli solo attraverso numeri, perché era, appunto, “più scientifico”. Non era pensabile parlare di loro come di animali dotati di menti capaci di risolvere problemi o di provare sentimenti e neppure di avere una propria personalità. Ma io mi ero persuasa del contrario, fin da bambina – è stato il mio cane, in un certo senso, a insegnarmelo – e in seguito sono sempre rimasta fedele alla mia opinione. Al di là del mio caso personale, comunque, credo davvero che lo studio del comportamento dei primati abbia aiutato, all’epoca, ad aprire le menti degli scienziati.

(Photo by Mark Schierbecker -  CC Creative Commons Wikimedia)

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