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I Love NY: Milton Glaser e i segreti di un marchio che ha fatto epoca

Se il city branding è una realtà diffusa, l’impegno e la ricerca di tecniche efficaci è tuttora aperta e viva. Per meglio comprendere in che modo un simbolo visivo può rappresentare una città, fino a coglierne l’anima profonda, ne abbiamo parlato con Milton Glaser, designer tra i maggiori di tutti i tempi, ideatore dell’ormai leggendario marchio “I Love NY”

Paese che vai, marchio che trovi: in misura sempre maggiore, città e territori realizzano i propri logotipi, mentre le Istituzioni hanno ormai acquisito una consapevolezza consolidata sulle potenzialità legate alla realizzazione di un’identità visiva: il detto, dunque, sembra a pieno titolo poter annoverare questa variante legata alla comunicazione.

Se il city branding è una realtà diffusa, l’impegno e la ricerca di tecniche efficaci è tuttora aperta e viva. Per meglio comprendere in che modo un simbolo visivo può rappresentare una città, fino a coglierne l’anima profonda, ne abbiamo parlato con Milton Glaser, designer tra i maggiori di tutti i tempi, ideatore dell’ormai leggendario marchio “I Love NY”, pionieristico e fortunato esempio di city brand che ha fatto scuola nel settore.

Con il logo “I Love NY”, è riuscito a tradurre in semplici segni di forte impatto la complessa identità di una città di milioni di persone e mille sfaccettature. Come è difficile, in generale, catturare la dimensione più rappresentativa di un’identità urbana per tradurla in un design efficace?

Da quando ho realizzato il logo “I Love NY” nel 1977, i giornalisti mi hanno sempre posto domande sul suo processo di creazione. I miei sforzi per spiegarlo sono stati molteplici. Tenterò di nuovo, consapevole però che la spiegazione potrebbe essere ridondante. Alcuni aspetti relativi al progetto non sono immediatamente evidenti. Al centro, ovviamente, c’è la necessità di rendere il logo memorabile e tutte le questioni legate all’identità convergono su questo obiettivo. “I Love  NY” – tuttavia – ha anche altre caratteristiche meno scontate.  Innanzitutto, trasforma il linguaggio, e fa diventare il verbo (love) un sostantivo (il cuore). Ciò rappresenta un aspetto assai peculiare, a tal punto che oggi molti leggono il logo come: "IocuoreNewYork", come loro traduzione del simbolismo. L’altro aspetto che lo rende distintivo è la richiesta per chi guarda di scomporre un puzzle. La lettera “I” è infatti una parola di senso compiuto, il cuore è un simbolo dell’emozione e NY sono le iniziali della città. Con tutti questi “spostamenti”, l’identità resta comunque ancora comprensibile da chiunque, in maniera quasi immediata. Inoltre, il logo, lungi dal rappresentare un invito diretto al pubblico a comprare qualcosa, costituisce  piuttosto un invito al pubblico a rispondere ad un sentimento profondamente radicato. Come tale, a differenza della pubblicità, contiene un senso di autenticità, di solito non presente in gran parte degli sforzi dell’advertising.

Alcuni dei più efficaci marchi di città sono fatti da simboli astratti, universali e concettuali, che non identificano direttamente la città stessa nelle sue caratteristiche più evidenti e ovvie. Come può un simbolo universale come un cuore diventare così fortemente legato ad un territorio specifico e immediatamente compreso da un pubblico globale?

Un attributo dell’identità, assai significativo ma raramente raggiunto, è che il marchio stesso deve poter creare affezione. Comprendere perché le persone hanno preferenze e amano alcune cose piuttosto che altre non è semplice. Tuttavia, la comunicazione è strettamente legata alle questioni della “likability” (attrattività) e della “preferenza”. Quando qualcuno dice “Amo più il rosso che il blu”, cosa può significare? Alcune forme astratte sembrano creare preferenze. In merito a “I love NY”, ho iniziato a credere che il contrasto tra la rigidità della grafia e la sensualità del cuore rosso è strettamente connesso all’accettazione di tale contrasto da parte del pubblico. Quali sono le funzioni cerebrali coinvolte in tale processo è al di là delle mie competenze ma certamente meriterebbe un’indagine. Ciò che è interessante osservare è come la costruzione di 'Iocuorequalcosa' sia stata adottata da migliaia di istituzioni e produttori per promuovere i propri obiettivi. Sembra che il mondo stesse proprio aspettando un modo per dire “Ti amo... qualcosa”, quando il logo è comparso per la prima volta, ma è meno credibile e sicuramente più banale quando diventa uno strumento di pubblicità avulso dal suo pubblico.

La versione completa dell’intervista a Milton Glaiser sarà pubblicata sul prossimo ICS Magzine.

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