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Perché la comunicazione è un bene collettivo

Nel sovraccarico informativo in cui viviamo, immersi nei dati e nei contenuti, la comunicazione – come ogni bene – rischia di perdere valore: un valore che, oggi più che mai, va ristabilito

Con l’elezione di Trump alla presidenza USA, la comunicazione politica ha definitivamente divorziato dalla verità, dice Gianrico Carofiglio nell’intervista condivisa in questo numero. Perché l’overdose comunicativa che il sistema mediale attuale somministra un po’ a tutti ha finito per rendere i contenuti sempre più vuoti, effimeri e ininfluenti.

Più un bene è disponibile, più si deprezza: questa semplice legge economica non risparmia quel bene immateriale che è la comunicazione. Disponibili come mai prima d’ora - in ogni luogo, in ogni forma, in ogni momento – le informazioni che ci circondano stanno inesorabilmente perdendo valore. Non modificano opinioni, non alimentano vere discussioni, ma si limitano, il più delle volte, a confermare idee già assestate.

In una parola, la comunicazione social è sempre meno “sociale”. Come riportarla a essere un bene collettivo, nel senso più autentico del termine? È una domanda che chi si occupa di comunicazione pubblica dovrebbe farsi ogni giorno. Perché le istituzioni hanno oggi una responsabilità comunicativa che va ben oltre l’obbligo di trasparenza nel senso tecnico del termine, ed è quello di garantire una qualche forma di aderenza alla verità.

Per farlo, non basta più “entrare nel gioco” – avere il maggior numero di follower, fare la campagna più innovativa, raccontare la storia più coinvolgente: bisogna giocare con una precisa etica, un impegno reale e una voce riconoscibile e affidabile. Solo dando valore alla comunicazione si potrà ristabilire il valore della comunicazione. 

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