Né vincitori né vinti

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Cooperazione informale aperta. È questo, secondo Zygmunt Bauman, il modello di comunicazione che può portare gli individui a una nuova forma di interazione e di vita collettiva, superando la crisi di fiducia che oggi attanaglia sia lo Stato che i cittadini. Una lezione esemplare su uno scenario in continuo mutamento. E sulle strade percorribili per raggiungere un nuovo equilibrio.

Il concetto di rivoluzione ha occupato molti discorsi, in quest’ultimo anno. Se ne è parlato molto, se ne è scritto molto. E anche in questa occasione* sono molti gli spunti interessanti emersi intorno al tema, che diventa ancora più stimolante nella misura in cui viene messo in relazione con la questione altrettanto complessa della comunicazione.

Al di là delle differenze di prospettiva e interpretazione, tuttavia, ho l’impressione che sullo sfondo di ognuno di questi discorsi si possano intravedere alcune analogie di fondo, che disegnano una sorta di “sentimento condiviso”, in cui convivono almeno tre spinte diverse. In primo luogo la diffusa consapevolezza che la comunicazione sia oggi nel pieno di una crisi; che in questo campo ci sia qualcosa di sbagliato, di disfunzionale, che si siano verificate delle fratture, a diversi livelli.

Penso ad esempio alla dimensione importantissima del rapporto tra Stato e cittadini e dunque alla possibilità di mettere a punto politiche nazionali che siano al contempo in accordo col punto di vista di entrambi i termini di questa relazione.

Accanto a questa impressione di crisi, tuttavia, è percepibile anche un sentimento di reazione, la convinzione che cercare una via di uscita, una medicina per questo malessere della comunicazione sia diventato un obiettivo tremendamente urgente, che qualcosa va fatto e va fatto molto in fretta. Perché altrimenti tutti noi saremo, per una ragione o l’altra, in difficoltà.

Emerge, infine, accanto al sentimento di crisi e all’urgenza di reazione, il tentativo di comprenderne le ragioni profonde, di identificare le cause per cui la comunicazione si trova in questa crisi.

Di fronte a queste considerazioni, l’opinione più frequente è che la salvezza risieda in primo luogo nella tecnologia digitale, che sta venendo in nostro aiuto, e in secondo luogo nella nostra capacità di capire come usarla correttamente, come manipolare nel modo migliore questi nuovi strumenti che sono lì ad aspettarci, pronti per essere usati, ma che in qualche modo si scontrano con la nostra imperizia o lentezza nell’adoperarli.

E tuttavia, tutto questo mi induce a farmi una domanda: è davvero questa la causa della crisi della comunicazione o è qualcosa di più profondo? Il problema sta negli strumenti e nel loro uso o forse piuttosto nell’agenda della comunicazione, ciò che definisce cosa stiamo comunicando e cosa è davvero importante comunicare?

Penso in particolare alle riflessioni di Talcott Parsons, a cui sono molto grato, intorno alle tematiche della sicurezza e della fiducia. All’epoca Parsons affermò che era in atto una crisi di sicurezza e di fiducia nei cittadini, nella società in generale. Oggi aggiungerei tuttavia, che non si tratta solo di crisi di fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, ma di crisi di fiducia in se stessi. Stiamo tutti perdendo le nostre sicurezze e le stiamo perdendo in fretta. Per diverse ragioni.

 

SAVOIR, PREVOIR, POUVOIR

A questo punto occorre aprire una parentesi. Nel XIX secolo Auguste Comte, uno dei pionieri della scienze sociali contemporanee, coniò una meravigliosa formula a tre termini: “savoir pour prévoir, prévoir pour pouvoir”, sapere per prevedere, prevedere per potere. Per Comte la formula era in primo luogo una sorta di “ricetta” generale per la modernizzazione delle scienze umane, ma quello che vorrei sottolineare è che oggi tutti e tre gli elementi della formula si trovano in profonda e fondamentale difficoltà In difficoltà è la nostra conoscenza: savoir. In difficoltà è la nostra abilità a fare previsioni, prévoir, e l’abilità di fare ciò che ne consegue: pouvoir.

Non credo però che il problema della conoscenza sia nella mancanza. Forse questo era vero quando ero giovane: il sentimento dominante, all’epoca, era la voglia di colmare i vuoti del sapere. Credevamo che se solo avessimo saputo di più, se solo avessimo condotto più ricerche, tutto sarebbe andato bene. Di fronte a mille di misteri in attesa di essere svelati, ci sarebbe bastato rivelarne uno, per poter dire che ne restavano solo 999.

Questo sentimento ora non ha più ragione di essere. Basti pensare che in una singola edizione domenicale del “New York Times” c’è oggi più sapere di quanto Voltaire e Diderot abbiano imparato in tutta la loro esistenza. Oppure che negli ultimi dieci anni l’umanità ha prodotto più informazione di quanta ne abbia prodotta in tutta la sua precedente storia.

La conoscenza, con i nuovi mezzi, si sviluppa in modo esponenziale: stando ad alcune ricerche il 60% della produzione di ricerca scientifica non viene mai citata, il che significa mai letta e mai utilizzata. L’informazione è semplicemente troppa perché la si possa assimilare. Quello che ci manca, oggi, non è dunque più conoscenza, ma al contrario una sorta di macchina selezionatrice, che riesca a separare il grano dal loglio.

Stiamo soffocando sotto questo eccesso di informazione, io per primo sto soffocando. Quando chiedo a Google di darmi un riscontro su un qualsiasi argomento, ottengo normalmente in risposta dai 2 ai 4 milioni di risposte: ovviamente la mia vita è troppo corta per digerirle tutte e trarne un senso. Il savoir, insomma, è in difficoltà non perché sia in deficit, ma al contrario perché è in eccesso.C’è una sovrabbondanza di informazione e quello che davvero non sappiamo è come separare ciò che è importante da ciò che non lo è.

Ovviamente questo si applica al sapere scientifico, ma anche al sapere divulgativo, quello su cui lavorano gli specialisti della comunicazione. Da sempre il problema dei giornalisti è catturare l’attenzione del lettore, che è sempre scarsa e contesa tra molte offerte e molti competitor. Questa competizione, tuttavia, oggi viene condotta diminuendo al minimo l’ampiezza dell’attenzione umana, in modo che ciò che abbiamo appreso oggi dai titoli dei quotidiani già domani verrà dimenticato, per essere pronti ad assorbire la serie successiva di titoloni a prima pagina.

Il secondo elemento in crisi oggi è il prévoir, l’abilità di fare previsioni. È quasi banale sottolineare che negli ultimi 4-5 anni tutti gli eventi importanti si sono verificati in modo inaspettato e imprevedibile. Siamo molto bravi a prevedere l’andamento delle routine, gli eventi ripetitivi, noiosamente uguali a se stessi, ma ciò che è davvero significativo è l’evento che accade per la prima volta, in modo inatteso. E questo è esattamente ciò che oggi non siamo in grado di fare, a causa dell’eccesso di cui dicevo. Se Google mi fornisce 2 milioni di risposte a una domanda, per la teoria della probabilità è ragionevole pensare che tra queste ce ne sarà almeno una, o forse anche più di una, che realmente è in grado di aiutarmi a fare previsioni. Ma come decidere quali sono? E come occuparsene? Questo è il problema.

Infine il pouvoir: Barack Obama ha vinto le elezioni al suo primo mandato dichiarando a tutti gli Stati Uniti “We can do it! We can do it!”. Era l’unico programma che aveva e gli è bastato per vincere la corsa. Ma ora ci accorgiamo chiaramente che né lui, né il resto degli Stati Uniti “poteva farlo”. Così uno dei principali messaggi delle elezioni, la promessa di un cambiamento, non ha avuto seguito, tradendo le previsioni.

 

LA CRISI DEGLI STRUMENTI

Ora, è difficile trovare una risposta a questa triplice crisi, ma sono sicuro che deve esserci qualcos’altro, oltre alla quantità di conoscenza, che ha il potere di determinare la nostra capacità di

“fare cose”. Il fatto è che oggi stiamo assistendo anche a un’altra crisi, di cui Comte non ha parlato perché all’epoca non poteva sperimentarla, ed è la crisi degli strumenti di azione, dell’agire efficace.

Quando ero giovane, il mondo era un insieme di campi contrapposti: l’umanità era più divisa, c’erano opinioni molto differenti e le persone si scontravano violentemente; a volte finiva a scazzottate, a volte peggio, ma il punto è che si discuteva ardentemente su quello che era necessario fare. Non ricordo nessuno che discutesse invece su chi avrebbe dovuto farlo. Su questo erano tutti d’accordo: a dover fare, naturalmente, era lo Stato. Il ragionamento che ci guidava era semplice: bisogna prima di tutto capire cosa è necessario fare; poi basterà ottenere la maggioranza, costringere quel ministro riottoso ad ascoltarci, e allora sarà lo Stato ad occuparsene…

Era questo lo schema sottostante alla cultura in cui siamo cresciuti: da un lato c’erano le Istituzioni, dall’altro l’individuo. Margaret Thatcher affermò addirittura che “la società non esiste”, che tra Stato e individui non c’è nulla, nessun livello intermedio. Allo Stato spettava agire e “fare cose”, agli individui di vigilare quella che Anthony Giddens chiama la “life-politics”. L’individuo, in altri termini, ha il compito di governare la propria vita, di organizzarla, e nel farlo è come se avesse il proprio parlamento, il proprio governo, la propria corte suprema: tutti e tre elementi del governo individuati da Montesquieu sono concentrati nell’individuo nella gestione della propria esistenza.

Da ciò consegue che compito dello Stato è di mettere gli individui nelle condizioni di esercitare questa “politica privata”, di non interferire con le decisioni dei singoli, ma anzi di fornire loro tutti i mezzi per la propria regolazione e auto-affermazione. Questa è stata, per lungo tempo, l’assunzione invisibile della nostra lebenswelt, ovvero il “mondo vissuto”, così come lo percepiamo, e anche la

tacita assunzione delle nostre strategie di vita.

Ma oggi, esattamente come i tre pilastri dell'aforisma di Comte, anche i termini di questa diade, governo e individui, hanno ricevuto un bel colpo. A partire proprio dal governo.

Pur con le dovute eccezioni, in generale non credo che la responsabilità per l'inettitudine e l'impotenza dei governi sia tutta dei politici. Sostituite un politico con un altro: la situazione non cambierà un granché. Perché il problema non sta in una selezione sbagliata dell’élite politica, bensì nella nuova condizione dello Stato-nazione.

Se, come ricordavo poc’anzi, quarant’anni fa tutti avevano fiducia nella capacità di azione dello Stato era perché all’epoca uno Stato per essere sovrano doveva avere pieni poteri, piena autosufficienza, perlomeno dal punto di vista politico, militare, economico e culturale. E infatti i membri della Lega delle Nazioni, ovvero i predecessori delle Nazioni Unite, erano appena 23. Oggi l’ONU conta più di 200 Paesi, ma nessuno si aspetta che abbiano una piena sovranità, economica, militare e politica. Perché è accaduto tutto questo? Perché oggi politica e potere, che prima risiedevano in un solo dominio, quello dello Stato-nazione, sono separate, o quanto meno sulla strada per il divorzio.

 

POLITICA E POTERE

Che cos’è il potere? Potere è l’abilità di fare cose. E cosa è politica? Politica è l’abilità di decidere quali cose vanno fatte. Se le due abilità si presentano insieme, ecco che si ha il potere dello Stato. Ma ora una gran parte del potere precedentemente detenuto dallo Stato è evaporato nel cyberspazio, nello spazio globale, una terra di nessuno, dove nessuno Stato è in grado di raggiungerlo e recuperarlo. La politica da parte sua è rimasta locale, ancora confinata all’interno dello Stato-nazione. Una vera politica globale non esiste ancora, non c’è istituzione in grado di portarla avanti, e per questo non va confusa con la politica internazionale, che di fatto coincide con la dimensione intergovernativa o addirittura interministeriale.

Insomma, siamo al divorzio. Abbiamo da un lato un potere globale che la politica non riesce più a controllare, dall’altro una politica che rimane locale e in larga parte privata del proprio potere. Non c’è da stupirsi, quindi, se in questa formula a due termini, Stato e individui, uno dei due elementi non funziona più propriamente.

È da qui che deriva questa diffusa mancanza di fiducia, prima di tutto nello Stato. Ma se ci troviamo in questo vuoto di fiducia non è perché i politici sbagliano – anche se certo, molti lo fanno – ma perché anche quando non si sbagliano, quando sono in buona fede e hanno buoni propositi, non hanno comunque il potere di fare ciò che è necessario fare.

Sull’altro versante di questa formula a due termini, questa assunzione tacita della nostra filosofia di vista, c’è l’individuo. Ma uno dopo l’altro siamo destinati a scoprire che tra l’essere individui de jure al diventare individui de facto c’è molta strada da fare, forse una strada infinita.  Di qui il crollo o quanto meno l’indebolimento della fiducia non solo nello Stato, ma anche in se stessi.

Ma, ripeto, qual è la medicina giusta per questo malessere dell’individuo e dello Stato? Molti pensatori contemporanei suggeriscono come rimedio un salto di paradigma, sotto forma di un passaggio “dal monologo al dialogo”, da una comunicazione che si indirizza dall’alto verso il basso a un modello di conversazione, di reale e reciproca partecipazione tra i due versanti.

Mi chiedo però se questa medicina sia sufficiente o se l’assenza di un dialogo ricco di significati non derivi da ragioni diverse dalla nostra semplice incapacità di conversare o la nostra mancanza di buona volontà a farlo. O forse la causa potrebbe essere in quella che sopra ho chiamato “la crisi dell’agenda”. Se abbiamo bisogno di dialogo, un dialogo vero e sensato, la prima domanda a cui dobbiamo rispondere è: di che cosa dialogheremo? Qual è l’agenda di questa conversazione? È questa la “grande domanda” che per ora rimane senza risposta.

 

MONDO OFFLINE E MONDO ONLINE

A questo punto, possiamo forse provare a trarre alcune considerazioni finali dai fenomeni che ho tentato di descrivere, e in particolare dalla moltiplicazione di crisi e di insicurezze che sembra dominare il tempo presente. Introdurrei, a questo punto, un’ultima forma di crisi, che è la crisi delle

agenzie, che rimanda alla questione: chi opererà il cambiamento necessario?

Negli ultimi vent’anni, come sappiamo, la tecnologia digitale si è sviluppata in modo esponenziale, ottenendo una immensa popolarità. Questo grande successo tuttavia sembra dipendere soprattutto da un fattore, ovvero dalla promessa di facilitazione implicita in questo tipo di strumenti, che sembrano dire agli utenti: “Con il nostro aiuto potrete rendere possibile l’impossibile, sarete capaci di fare cose che prima, nel mondo offline, erano estremamente difficili; noi invece possiamo individuare gli aspetti più spiacevoli e vessanti della vita quotidiana e rendere tutto più facile”.

Ecco che inizia a emergere il nucleo fondamentale del mio discorso, che riguarda essenzialmente la relazione sempre più complessa tra mondo online e offline, due dimensioni tra le quali ci dividiamo ogni giorno, a volte di ora in ora, passando continuamente dall’una all’altra. Ecco, mi pare che una delle caratteristiche più forti di questa relazione, oggi, consista nella tendenza dell’online a innestare, imprimere, rinforzare i propri modelli specifici nel mondo offline.

Perché avviene questo? Su cosa è basata questa “speranza di fare”, questo effetto di azione Esattamente sulla promessa di facilitazione, di semplicità, che gli strumenti digitali assicurano di poter garantire, in tutte le aree di azione, dalle esigenze private – trovare nuovi amici, una compagna di vita – a quelle più pubbliche – lavorare, produrre, realizzare progetti. Quello che però maggiormente mi interessa, di questa promessa, è l’impatto che potenzialmente può avere su quella che abbiamo chiamato “la crisi delle agenzie”.

Nell’ultimo anno abbiamo tutti assistito a un fenomeno nuovo: la gente nelle strade. E sulle strade non per partecipare a “semplici” cortei – un modo piuttosto sorpassato per cercare di influenzare l’opinione pubblica – bensì per occupare le piazze pubbliche, piantando tende, piazzandosi lì e continuando a ripetere “non ce ne andremo finché non ci darete ascolto”. Un fenomeno senza precedenti, che ha avuto la sua origine a Praga, 1989, e che da lì in poi si è espanso sempre più, per imitazione e contagio, fino a confluire nelle recenti proteste in Nordafrica.

La Primavera Araba è stato un evento epocale, un “meraviglioso dramma” che ci ha adorabilmente sorpreso e colpito, tenendoci tutti avvinti in attesa, col fiato sospeso. A distanza di mesi, siamo ancora in attesa, aspettando che finalmente arrivi anche l’Estate Araba. E tuttavia quello che è accaduto nelle piazze di molti Paesi da febbraio in poi ha saputo dare una prima risposta alle nostre domande, un primo esempio di una nuova forma di azione che emerge dal disappunto delle persone nella politica e nelle istituzioni, dalla sfiducia nella capacità dei governi di realizzare le loro promesse e dal desiderio di trovare nuovi modi per gestire la propria life politics.

Questa nuova forma di azione è stata immaginata dalla gente riunita in strada come un grande laboratorio all’aria aperta, all’interno del quale vengono sperimentate nuove modalità di azione politica efficace, concepite per rimpiazzare quelle ormai discreditate. E oggi, alla luce dei risultati incredibili ottenuti in Tunisia e in Egitto soprattutto, siamo in grado di dire che queste forme improvvisate nelle strade sono incredibilmente efficaci quando si tratta di liberare il campo, ripulire, per così dire, il terreno dove poi sorgerà la nuova costruzione. Ma non abbiamo ancora avuto alcuna prova che la stessa forza sia capace anche di ricostruire, di erigere un nuovo edificio su quei luoghi “liberati”.

Sotto questo aspetto, non sappiamo cosa accadrà: se arriverà qualcuno e quando in grado di usare questo terreno per costruire qualcosa che sia di nuovo inaspettata, imprevedibile, inattesa: forse meravigliosa, forse no.

 

OBIETTIVO COOPERAZIONE

Nonostante tutto questo, io credo davvero che ci sia più di un semplice spazio per la speranza in un cambiamento, nell’invenzione di nuovi modelli di vita.

Pensiamo ad esempio a quante grandi e importanti innovazioni dobbiamo al popolo italiano, a partire da Leonardo da Vinci in poi, nelle arti, nella musica, nella filosofia. L’ultima meravigliosa invenzione degli italiani è lo slow food. Ora, io mi aspetto che gli italiani inventino anche lo slow thought, il pensiero lento.

Contrariamente a quanto siamo portati a credere, infatti, non è l’accelerazione la chiave del successo. Continuiamo a pensare che moltiplicando il PIL, le conoscenze, riviste scientifiche, conferenze, giornali, tutto andrà bene. Ho invece il sospetto che non sia così. Come già accennato, credo invece che il vero scopo dell’accumulazione di informazioni sia di eliminare il ricordo delle informazioni precedenti.

Citerei a questo proposito due considerazioni in particolare, entrambe riguardanti gli effeti che una nuova tecnologia, un nuovo stile o una nuova cultura possono produrre sulla qualità della nostra politica e democrazia.

La prima è di Joshua Meyrowitz: fu formulata nel 1985, molto prima che i computer diventassero tecnologia diffusa, e riguarda la TV. Meyrowitz sosteneva che la TV potesse avere un grandissimo potenziale come mezzo di diffusione di una democrazia partecipativa su scala enorme. 25 anni dopo non abbiamo visto questo tipo di effetto della TV e sono tuttora in corso ricerche per comprendere perché non sia accaduto.

La seconda citazione è del filosofo Paul Virilio, che ha affermato che i nuovi strumenti digitali sono essenzialmente antidemocratici. E questo proprio perché, come si diceva, queste meravigliose invenzioni mediali, come il real time, la copertura quotidiana, 24 ore su 24, stanno soffocando la gente, gli utenti, gli spettatori con questa massa indigeribile di informazioni, impedendo loro di accedere a quello che è davvero il centro del sistema e dunque a quello che davvero è importante conoscere.

Ora, se davvero verrà inventato il “pensiero lento”, anche i processi informativi procederanno in un modo differente, avvicinandosi gradualmente a quel modello che Richard Sennett, uno dei più brillanti sociologi contemporanei, ha recentemente definito “informal open-ended cooperation”, cooperazione informale aperta.

Ancora una volta si tratta di una formula a tre termini, che si riferisce a qualcosa di più del semplice dialogo. Cosa significa esattamente “informale”? Significa che si accede a questa cooperazione senza regole pre-scritte, perché le regole su come la cooperazione deve procedere sono esse stesse la posta in gioco del processo e sono destinate a emergere dal suo corso.

Allo stesso modo, “aperta” significa che non si accede alla cooperazione convinti di essere nel giusto e che gli altri stiano sbagliando, cosicché l’unico scopo del dialogo consiste nel mostrare il torto altrui e la propria ragione. Al contrario, si accetta di partecipare alla cooperazione attraverso un duplice ruolo, quello del maestro e quello dell’allievo, consapevoli di essere lì non solo per insegnare, ma anche per imparare. E infine la cooperazione, che non significa annullare la dimensione del dibattito e della discussione, ma solo stabilire che lo scopo del confronto non è dividere i cooperanti in vincitori e vinti, avvantaggiando una parte piuttosto che l’altra, bensì far vincere entrambi, in modo che tutti ne traggano beneficio.

Hannah Arendt una volta ebbe a elogiare la memoria del grande filosofo illuminista tedesco Lessing, il quale non solo fu il primo ad affermare che le differenze tra persone ci saranno sempre, che la diversità è un elemento endemico della razza umana, non un fastidio temporaneo; soprattutto egli affermò con forza che queste differenze sono necessarie, in quanto tutta la creatività, tutta la bellezza e grandezza del genere umano deriva proprio dalla sua estrema varietà.  Per Lessing, insomma, la varietà rappresenta l’orizzonte naturale, il campo di coltura della creatività.

È la stessa idea che sta alla base della formula tripartita di Sennett: cooperazione, apertura, assenza di regole prestabilite. Ognuno di questi tre elementi, com’è facile intuire, richiede tempo. La fretta, l’urgenza, li distrugge. Nella fretta infatti non si ha tempo di cercare di capire quali siano le migliori regole di cooperazione per una data situazione, per cui si tende a imporle, cercando una scorciatoia.

Nella fretta si perde anche l’apertura: pressati dall’urgenza non si ha tempo di concentrarsi sulle sottigliezze, sui dettagli, sulle diversità di opinione. Ci si precipita da un punto all’altro, senza prestare attenzione al percorso.

Quanto alla cooperazione, infine, costruire un vantaggio comune rappresenta senza dubbio un lavoro molto più impegnativo della semplice appropriazione di beni altrui. Per questo organizzare la cooperazione in modo che ciascuno abbia beneficio e nessuno “perda” è probabilmente una delle sfide più difficili a cui si può pensare.

Nondimeno, se quello che vogliamo è una speranza, una prospettiva ottimistica, credo che sia proprio questa la direzione giusta in cui guardare, l’unica vera ragione per essere ottimisti e continuare a lavorare.

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